di Marco Ansaldo
Twitter contro i regimi? La (breve) storia dei social media si arricchisce di un nuovo capitolo: quello dei governi percepiti dal complesso degli utenti nel mondo come fra i più autoritari. Ecco così che il colosso dei messaggi, con sede a San Francisco, ha rimosso ieri 32 mila account fasulli di Cina, Turchia e Russia, usati per “fare propaganda e seminare disinformazione”, come ha spiegato la società con un post sul suo blog. E, naturalmente, i Paesi toccati dal provvedimento hanno reagito e si preparano a contromisure.
La rete più grande fra le tre smantellate è quella cinese. Era composta da un nucleo di 23.750 account, i cui contenuti venivano amplificati sul social a loro volta da altri 150 mila contatti. Twitter scrive che Pechino la adoperava per attività “coordinate e manipolatorie”, destinate a “diffondere narrazioni geopolitiche favorevoli al Partito comunista cinese, e a racconti ingannevoli sulle dinamiche politiche di Hong Kong’.
La rete turca invece contava 7.340 account, impegnati in una narrazione favorevole al presidente Recep Tayyip Erdogan e al suo partito conservatore di origine religiosa. La rete russa disattivata era invece composta da poco più di 1.152 account, soprattutto legati a Current Policy, un sito d’informazione che fa propaganda per conto del governo. Tra le attività la promozione di Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin, e l’attacco dei suoi critici. L’intero contenuto degli account smantellati è stato comunque salvato in un database perla ricerca scientifica.
Pechino ha reagito con durezza. «La Cina è la più grande vittima di disinformazione», ha replicato la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, in dichiarazioni riportate dalla Cnn. Ha aggiunto che il suo Paese «è contro la diffusione di disinformazione», e ha spiegato: «Se Twitter vuole davvero fare qualcosa, dovrebbe chiudere quegli account coordinati e organizzati che attaccano e infangano la Cina».
Non meno veemente la reazione di Ankara. Le autorità turche hanno da sempre un rapporto non facile con i social, al contrario della popolazione, soprattutto i giovani, in molti casi protagonista nel diffondere notizie e avvenimenti testimoniando versioni spesso opposte a quelle fornite dalla stampa ufficiale. In Turchia a lungo Wikipedia è rimasto non visibile, e gli utenti dei social si industriano a trovare sistemi alternativi per comunicare.
Ankara ha respinto la sospensione definendola come «faziosa» e «politicamente motivata». Il capo della comunicazione della Presidenza della Repubblica, Fahrettin Altun, ha accusato la rete di agire come «una macchina di propaganda con certe inclinazioni politiche e ideologiche», giudicandola colpevole di «diffamazione».
Ma se Twitter ha deciso di passare all’offensiva, dalla California un segnale opposto è arrivato da Zoom. La società di San Josè ha ammesso dl avere aderito alle richieste del governo cinese di chiudere gli account degli attivisti negli Usa e a Hong Kong che, in videoconferenza, volevano commemorare la repressione di piazza Tienanmen. Zoom ha così motivato la sua decisione: «La nostra tecnologia non ci consente di rimuovere partecipanti specifici da una riunione o bloccare partecipanti di un determinato Paese».
Fonte: La Repubblica